martes, 13 de mayo de 2008

El Mirador, Veracruz, Mexico

Al colle dove si trovano le croci del pueblo, durante la messa.

Sur la colline où se trouvent les croix, pendant le messe.
Nella comunità, aspettando l'inizio della processione.

Dans la communauté, avant de la procession.
La banda che suona sul colle durante la messa.

La fanfare qui joue sur la colline pendant la messe.


La messa sul colle.

La messe sur la colline.



Ciao a tutti,
Ecco qualche foto della settimana che abbiamo passato al Mirador, la comunitá tepehua nella Sierra Huasteca di Veracruz che mi aveva accolto due anni fa durante la mia ricerca di antropologia sociale su cambio culturale e migrazione transnazionale.
Questa volta e’stata una visita personale alla familia che mi ha “adottato” e agli amici della comunitá, un’occasione per presentare loro Benjamin e per far conoscere a lui un Messico che non e’ da cartellone pubblicitario, quello che Bonfil Batalla chiama “México profundo”, ossia il Messico indigeno.
Il Messico e’ uno dei Paesi al mondo con la piú grande varietá di gruppi etnici e di idiomi (sono censate all’incirca 65 idiomi differenti), ed il passato indigeno costituisce da sempre una fonte di orgoglio nazionale per tutti i messicani, dovuto alla grandeza delle civiltá precolombiane che si sono sviluppate sul suo territorio.
Nella costituzione messicana si afferma che la ricchezza di questo Paese é fondata sulla diversitá dei suoi gruppi indigeni, i cui diritti (alla terra, all’espressione culturale e religiosa, alla rappresentanza política etc.) vengono affermati e garantiti dalla costituzione stessa.
Ciononostante, tra le dichiarazioni di apertura e le pratiche concrete del governo messicano e della classe dirigente in generale, il varco e’ quello famoso tra il “dire” e il “fare”. Durante tutta la storia delle relazioni tra popoli indigeni e spagnoli prima (attraverso il governo coloniale) e mestizos poi (nella forma di stato-nazione), sono segnati dalla stessa ambiguitá tra recuperazione del passato indigeno e riconoscimento della sua grandezza, e relegazione degli indigeni viventi ai margini della societá. Una contraddizione che porta da un lato alla celebrazione delle piramidi e dall’altro al razzismo che pervade, piú o meno fortemente e consapevolmente, gran parte della societá messicana nei confronti degli “indios”, categoría dispregiativa che talora viene utilizzata come insulto.
Attualmente, in un Messico in pieno processo di cambio, marcato dall’ apertura del governo messicano al liberalismo economico a partire dalla firma del Trattato di Libero Commercio con gli Stati Uniti e il Canada nel 1994, i popoli indigeni messicani continuano a essere relegati al margine della societá. I diritti che vengono loro riconosciuti nella Costituzione, non vengono rispettati nella realtá. La terra, che era tornata nelle loro mani grazie al reparto agrario post-rivoluzionario (che garantiva l’inviolabilitá della proprietá comunale, el ejido), sono state liberalizzate con la modifica dell’articolo 27 della costituzione, permettendo cosí alle potenti famiglie di caciques di appropriarsi nuovamente di grandi porzioni di terra e di ricostituire i latifondi. Il diritto di espressione é contradetto dall’ostacolazione da parte della Secretaria de Comunicaciones y Transportes di qualunque forma di espressione indipendente: le radio comunitarie e indigene non facenti parte del sistema statale di radio comunitarie sono sovente attaccate in maniera diretta e indiretta, a volte addirittura obbligate a chiudere senza una reale giustificazione, come è accaduto a Radio Huayacocotla (una radio attiva da piu’ di 30 anni al fianco degli indigeni nahua, tepehua e otomí nella Sierra di Veracruz) nel 1995. E su scala locale, le grandi famiglie di mestizos applicano, con la violenza quando è necessario, il loro potere e il loro controllo sulla terra. L’atroce attualitá dell’uccisione, lo scorso 7 aprile di due ragazze triqui, che lavoravano in una radio comunitaria nello stato di Oaxaca, rappresenta un triste simbolo, all’interno del quale si manifesta lo stato attuale della libertá di espressione degli indigeni messicani e l’uso della violenza nei loro confronti, che a partire dalla Conquista non e’ mai realmente terminato.
In questo contesto, localmente e globalmente, i popoli indigeni resistono – ormai da diversi secoli – continuando a coltivare le loro tradizioni, a parlare le loro lingue, a celebrare le loro feste e cerimonie. Ma al contrario di essere comunitá “chiuse”, come ci suggerisce l’immagine di societá tradizionale, si tratta di sistemi social in continua evoluzione e apertura, in interconnessione dinamica con un mondo che cambia a tutti i livelli.
E cosí, se torniamo al Mirador, troviamo una piccola comunitá, in una zona povera e emarginata del Messico, dove quasi tutte le famiglie hanno ormai una televisione, dove piú della metá degli uomini adulti e dei giovani in etá lavorativa si trova attualmente negli Stati Uniti (“El Norte”, o “El Otro Lado) o ha avuto una esperienza di migrazione, dove l’apprendimento del tepehua comincia ad essere posto in secondo piano rispetto allo studio dell’inglese, dove già da tempo l’artigianato locale è quasi completamente scomparso, per lasciare posto a un indumentario urbano (jeans e maglietta) e ad utensili in plastica, accanto a quelli tradizionali in terracotta, legno e pietra. Non ci sono molti segni esteriori di “indigenitá”, e per gli amanti del colore folclórico una permanenza in questa zona sarebbe deludente.
Ciononstante, le persone continuano ad assumere un’ identitá tepehua, che si manifesta in vari aspetti, come per esempio nella celebrazione di feste “sincretiche”, dove a piú livelli si mescolano il retaggio autoctono ed il cattolicesimo popolare spagnolo importato dai primi conquistadores e coloni; elementi atavici (come il culto degli elementi naturali) e simboli della modernitá (come accade durante il carnevale, dove ogni anno si incorporano maschere nuove prese dai personaggi dell’attualitá nazionale ed internazionale).
In questa visita al Mirador abbiamo avuto l’occasione di partecipare alla “Fiesta de la Santa Cruz”, nella quale si celebra la croce di Gesú (simbolo densissimo, all’interno del quale si fondono lo strumento dell’evangelizzazione cattolica e la cosmovisione indígena, basata sui 4 punti cardinali e l’asse centrale che connette cielo e inframondo), en ella quale alcuni studiosi (come Roberto Williams García) riconoscono un culto primordiale di fertilitá.
Concretamente, la festa si organizza in tre giorni (2,3 e 4 di maggio), uno di preparazione e due di celebrazione. Durante il primo giorno, le 3 croci vengono trasportate dal colle, in cui si trovano durante tutto l’anno, alla comunitá, dove vengono ridipinte e “vestite” con dei fiori in carta velina che vengono preparati questo stesso giorno. Ognuno nella comunitá ha una partecipazione specifica alla preparazione della festa: pulire la comunitá, preparare i fiori, adornare le croci etc.. L’intera organizzazione é basata su un sistema di cargos, comune a tutte le comunitá indigene messicane: i diversi “padrini” si fanno carico delle diverse spese, ossia la banda (la música accompagna incesantemente i tre giorni della festa), il cibo per il convivio collettivo, l’uccisione di un maiale che viene distribuito giá cucinato a tutte le famiglie della comunitá etc.
Il secondo giorno, dopo il convivio comunitario, ha luogo la processione alla chiesa nel pueblo mestizo ( Tlachichilco), dove le croci vengono benedette dal prete (con incenso e acqua santa) e dove si celebra una messa “mista”: mestizos e indigeni, ognuno con le proprie croci e la propia banda, assistono insieme alla celebrazione, ed insieme realizzano un’ultima processione intorno al pueblo, alla fine della quale ognuno prende la propia strada, verso la comunitá o il centro del pueblo.
L’ultimo giorno si realizza una seconda processione: questa volta le croci vengono ricollocate sul colle (dove resteranno un altro anno a vegliare sulla comunitá) e benedette dagli stessi membri della comunitá, con coppal (una resina secca molto profumata, che e’ utilizzata in tutto il Messico per rituali di purificazione) e acqua benedetta. Alla fine della processione, tutti i membri della comunitá si ritrovano nella galera, la zona comune dedicata alle feste, dove si ringraziano ufficialmente tutti i padrinos della festa che hanno compiuto il loro dovere, e si annunciano i padrinos per la festa dell’anno successivo.
Infine, la croce piccola (una croce che è sustodita nella comunità dai tempi della rivoluzione) viene trasportata con un ultima processione in casa di quello che sarà durante tutto l’anno a venire il padrino della croce.
La banda lascia la comunitá e la vita riprende i ritmi quotidiani: lavorare nel campo, andare a prendere la legna,preparare tortillas, fagioli neri e caffé (la base dell’alimentazione indígena), riunirsi nel patio per parlare, discutere, giocare, spettegolare….
Nei giorni trascorsi al Mirador, l’interesse per i modi di vita sostenibili che a’ alla base del nostro progetto, e le informazioni che stiamo raccogliendo poco a poco al riguardo, hanno dato vita ad alcune riflessioni.
Il “progresso” che viene promosso dai programmi governamentali per i popoli indigeni é marcato dall’apertura ad un liberalismo economico (gli indigeni, dal 1995, hanno diritto a diventare proprietari della loro porzione di terra comunitaria, anteriormente in usofrutto, e di conseguenza a poterla vendere) ai cui benefici non potranno mai accedere, ma di cui pagano le conseguenza negative, come ad esempio la frustrazione per tutto ció che non possono comprare e per un modello di vita che vedono in televisione ma che non possono raggiungere. Parte di questo progresso è la costruzione di case in cemento, che sostituiscono il sistema tradizionale di costruzione in terra e legno, ideale per un clima sub tropicale caldo e umido. Il cemento (che il governo si incarica di distribuire a tonnellate nelle comunità indigene) è il peggiore isolante esistente, e fa sí che le case della comunità si siano trasformate in veri e propri forni, che conservano il calore accumulato durante la giornata fino all’alba. Status symbol, la casa in cemento in questo clima rappresenta una reale aberrazione, anche dal punto di vista estético, trasformando la comunità in una sorta si sobborgo emarginato suburbano, in perenne costruzione.
In un momento in cui su scala globale si sente l’esigenza di tornare a materiali di costruzione ecológica (terra, legno, paglia, calce) che sono isolanti efficaci in diversi climi, e che vengono riconosciuti piú salutari per il benessere umano generale, i popoli indigeni sono spinti (per accaparrarsi le briciole di un modelo di sviluppo capitalista al quale non hanno i mezzi per accedere pienamente) ad abbandonare quelli che sono i loro sistemi di costruzione tradizionale in vantaggio di materiali che nei paesi “sviluppati” si sta cercando di abbandonare.
Questo paradosso non e’ il solo a interconnettere la situazione attuale dei popli indigeni e la corrente che promueve una vita eco-sostenibile. La tendenza del “ritorno alla terra”, della coltivazione organica, dell’abbandono di semi geneticamenti modificati, ci riportano a sistemi che da sempre rappresentano il modello di relazione alla terra proprio dei gruppi indigeni messicani. Modello che viene ostacolato da programmi governamentali che promuovono l’utilizzo di semi geneticamente modificati, la commercializzazione della terra etc.
Questo ci ha portato a pensare che le differenti correnti ecologiste (eco-costruzione, permacultura, comunitá ecologiche …) e il movimiento indigeno (a partire dagli anni Settanta i popoli indigeni, non solo Messico ma in tutto il continente americano, si sono organizzati con movimenti etno-politici e di rappresentanza indigena locale, nazionale ed internazionale) potrebbero arricchirsi mutuamente a diversi livelli: le conoscenze indigene ed il loro tipo di relazione alla terra possono costituire un modello per chi si sta dedicando a sperimentare modi di vita eco-sostenibili, e le conoscenze tecniche e scientifiche sviluppate in questi ambiti potebbero apportare un grande miglioramento alle condizioni di vita delle comununitá indigene.
Ad esempio, per quanto riguarda un miglioramento tecnico delle costruzioni in terra e legno, o del sistema di recuperazione e reciclaggio dell’acqua; o con l’apportazione di semplici strumenti come il bagno secco, che permette un miglioramento delle condizione igieniche e la produzione di un ottimo fertilizzante, o il forno solare, che permette un notevole risparmio di legna, grazie all’utilizzazione dell’energia solare.
Queste ed altre riflessioni ci fanno pensare che la connessione tra differenti contesti costituisce una parte piccola ma importante del cambiamento che auspichiamo a scala globale, e che far circolare informazioni – per quanto astratto possa sembrare – rappresenta una parte importante di questo nostro progetto. Nel caso specifico della comunitá, ci siamo impegnati a trasmettere le poche conoscenze che abbiamo acquisito finora su costruzione ecologica, sistemi autosufficienti e sostenibilitá. E considerando che siamo solo all’inizio del viaggio, contiamo di poter creare altre connessioni, rafforzare reti esistenti, far circolare altre informazioni. Nel nostro piccolo….
Qualche giorno dopo la fine della festa anche noi abbiamo lasciato la comunitá, io con un po’ di tristezza per il poco tempo passato con la mia famiglia adottiva, e Ben con un altro tassello da aggiungere al Messico che inizia a conoscere…

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